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Оси и плоскости тела человека


Оси и плоскости тела человека - Тело человека состоит из определенных топографических частей и участков, в которых расположены органы, мышцы, сосуды, нервы и т.д.


Отёска стен и прирубка косяков Отёска стен и прирубка косяков - Когда на доме не достаёт окон и дверей, красивое высокое крыльцо ещё только в воображении, приходится подниматься с улицы в дом по трапу.


Дифференциальные уравнения второго порядка (модель рынка с прогнозируемыми ценами) Дифференциальные уравнения второго порядка (модель рынка с прогнозируемыми ценами) - В простых моделях рынка спрос и предложение обычно полагают зависящими только от текущей цены на товар.

L'industria dell'alimentazione





Nitriti e nitrati, coloranti e conservanti, zuccheri raffinati e grassi insaturi, colesterolo buono e cattivo, grassi vegetali e animali volevano dire ben poco fino a pochi anni fa. La sempre maggiore capacità ipnotica dei mezzi di comunicazione di massa ha determinato un notevole aumento del consumo di cibi di origine industriale, preconfezionati, le cui capacità nutritive e i cui contenuti risultano però essere poco indicati per il proseguimento di una corretta alimentazione.

L'importanza dell'alimentazione nella vita dell'uomo è nota più o meno a tutti. Il cibo è il carburante del corpo e quindi è importantissimo che esso sia di qualità superiore, poiché a lungo andare un'alimentazione scorretta provoca immancabilmente squilibri e malattie.

Rispetto a solo cinquant'anni fa l'alimentazione è notevolmente migliorata, sia per l'equilibrio, sia per la qualità dei cibi, ma abbiamo commesso l'errore di permettere agli industriali di occuparsi in misura eccessiva della nostra tavola. Gli industriali ci trattano esattamente come fanno gli alleva tori con il loro bestiame, anche se con i dovuti accorgimenti: investono miliardi in pubblicità e poi si dedicano alla messa a punto di particolari tecniche per risparmiare il più possibile durante la produzione e il confezionamento dei cibi.

Nella triste storia dello scadimento qualitativo dei prodotti alimentari, l'avvento delle sofisticazioni chimiche è stato il colpo di grazia alla salute dei poveri e ignari consumatori. I produttori sono diventati maestri nell'applicazione delle tecniche di miglioramento chimico dell'aspetto dei prodotti, nonché nella lunga conservazione dei medesimi, con conseguente, notevole diminuzione dei costi. Sono invece rarissimi i casi in cui i produttori si siano dedicati al miglioramento qualitativo dei cibi che ci propinano. A nostra insaputa, centinaia di pericolosi preparati chimici sono entrati a far parte delle nostre abitudini alimentari: lecitine, coloranti, antiossidanti, oli vegetali pericolosi, additivi di ogni genere, una sarabanda di veleni che hanno minato seriamente la nostra salute. Da qualche anno il problema è stato affrontato con una certa serietà dagli organi competenti, che hanno posto fuori legge numerosi composti, la cui pericolosità è ancora un'incognita, vengono regolarmente impiegati. Tuttavia la questione è ancora aperta poiché la protezione legislativa e i controlli lasciano ancora a desiderare e inoltre persiste una certa ignoranza da parte dei consumatori, che si lasciano allettare troppo facilmente dalla pubblicità. Pochissimi dei prodotti alimentari confezionati possono essere considerati sicuramente sani.

Occorrono leggi che facciano davvero chiarezza e sopratutto che impediscano l'utilizzo di sostanze la cui tossicità non sia ancora stata esclusa. Non deve trarre in inganno il fatto che negli ultimi decenni la vita media della popolazione sia molto aumentata, perché contemporaneamente è cresciuto a dismisura il numero dei decessi per cancro e infarto, due cause di morte chiaramente imputabili ad una alimentazione poco sana, magari proprio a causa delle tante sostanze tossiche presenti nei prodotti industriali. Con l'alimentazione non si scherza. Il rigore è d'obbligo.

 

La globalizzazione

Negli ultimi anni il termine “globalizzazione” è entrato prepotentemente nel linguaggio comune. Sempre di più si sente parlare di globalizzazione, sempre di più i giornali, la televisione, insomma i mezzi di informazione si occupano dell’argomento. Ma esattamente per globalizzazione cosa si intende? Globalizzazione cosa vuol dire? Tentiamo una semplice spiegazione. La parola globalizzazione viene dall’aggettivo “globale” e può essere riferita a tanti aspetti diversi della nostra vita. Si parla, ad esempio, di “globalizzazione dell’informazione” per fare riferimento al fatto che, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, le notizie possono viaggiare più velocemente che in passato e raggiungere qualsiasi parte del pianeta. Si parla di “globalizzazione culturale” quando si vuole evidenziare che alcuni stili di vita e alcune abitudini si diffondono rapidamente da un luogo all’altro della Terra, spesso a scapito delle tradizioni locali, che invece vanno scomparendo. Più spesso questa parola è usata in politica e in economia. Infatti lo sviluppo delle telecomunicazioni e l’intensificarsi degli scambi commerciali hanno, negli ultimi decenni, rivoluzionato l’economia mondiale, rendendola, appunto, globale. Con il termine “globalizzazione” si indica, dunque, la progressiva abolizione delle barriere commerciali, la crescente integrazione economica tra paesi, l’affermazione del fenomeno delle imprese multinazionali, la tendenza verso la standardizzazione dei prodotti. I prodotti di alcuni marchi vengono sponsorizzati in commercio in quasi tutti i paesi del mondo. È un fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi a livello mondiale in diversi ambiti, il cui effetto principale è una decisa convergenza economica e culturale tra i Paesi del mondo. La globalizzazione può essere vista come una internazionalizzazione di determinati prodotti, suscitando una crescente omologazione a livello mondiale dei consumi, una standardizzazione dei comportamenti culturali, ai danni delle specificità locali. La globalizzazione può favorire lo sviluppo economico di alcuni stati, in particolare quelli industrializzati e sviluppati, attraverso guadagni e profitti provenienti da un modo di agire: il decentramento. Esso consiste nello spostare le industrie in paesi sottosviluppati, dove la manodopera ha un costo inferiore. Cosi facendo si offre un lavoro nei paesi più poveri, questo è vero, ma le multinazionali decentrano le loro industrie in paesi in via di sviluppo che non possono così svilupparsi. In campo economico la globalizzazione denota la forte integrazione degli scambi commerciali internazionali e la crescente dipendenza dei paesi gli uni dagli altri. In ogni caso la globalizzazione “ferisce” le tradizioni popolari, diffondendo alcune feste che appartengono a quelle di un altro popolo. Ad esempio Halloween è una festa di origine celtica che si è diffusa nei popoli anglo-sassoni; con la globalizzazione si è diffusa nei popoli dei paesi sviluppati. Ciò non accade solo per le feste, ma anche per il modo di vestire, sopratutto quello giovanile, dove, per esempio, indossare le T-shirt ora è comunissimo. Oramai anche i cibi che mangiamo sono diffusi in tutto il mondo: la pizza, la cucina e i vini italiani e quelli francesi, il sushi, ecc. L’unificazione del mondo nell’ottica di un mercato unico non elimina la disparità fra le varie zone del pianeta, anzi alcuni ritengono che tali differenze aumentino: ciò succede perché i meccanismi di un’economia che tiene conto solo dell’andamento del mercato e del profitto, necessariamente causa dei danni notevoli alle specificità culturali, economiche, ambientali e sociali di una certa zona della terra. In pratica, quindi, il fatto che gli equilibri economici siano stabiliti a livello globale; e non più locale, non ha finora diminuito gli squilibri e le differenze sul nostro pianeta. Anzi, per i paesi più sviluppati che si trovano nel Nord del mondo (America del Nord, Europa, Giappone), la globalizzazione ha significato un maggiore arricchimento. I Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo (America latina, Africa, Asia), invece, stanno diventando sempre più poveri.



La globalizzazione dell’economia, da un lato, sta facilitando gli scambi internazionali, producendo maggiore benessere. Dall’altro sta mettendo in luce i grandi squilibri del pianeta: per il 20% della popolazione mondiale, che dispone dell’80% delle ricchezze del pianeta, tutto sembra vicino, accessibile, acquistabile; per tutti gli altri le necessità, anche basilari, sono negate dalla povertà e dall’arretratezza. Arrivati a questo punto ci verrebbe voglia di metterci a gridare: “Fermate questo mondo, voglio scendere!”. E invece no! E invece da questo mondo non dobbiamo “scendere”, perché il suo motore non si può fermare. Immaginate che vi regalino una Ferrari nuova: che fate, la rifiutate perché è troppo veloce e può travolgere i pedoni o imparate a guidarla? È quello che dobbiamo tentare di fare; conoscere i fenomeni legati alla globalizzazione è importante per capire come gestire la nuova realtà che ci circonda e metterci alla guida di questa macchina così potente, per non restarne travolti.

 

Il mondo del lavoro

Il mondo del lavoro ha vissuto in questi anni una continua evoluzione: nuove professioni e nuovi sistemi produttivi si fanno strada; il settore terziario, un tempo semplice supporto agli altri settori, sta ora diventando la forza trainante dell'economia.

Il terziario è quel settore economico che produce e fornisce servizi. Mentre il settore primario si preoccupa di ricavare le risorse che la terra offre e il settore secondario (industria e artigianato) ha il compito di lavorare i beni, creando dei manufatti utilizzabili dall'uomo, il terziario provvede ad organizzare la distribuzione dei prodotti e ad allestire tutti i servizi necessari. Col termine terziario si intende quindi un ambito molto vasto e variegato, che comprende un'enorme quantità di attività, anche assai diverse tra loro.

Vediamo qualcuna più da vicino. Innanzitutto la distribuzione dei beni: dal grossista, che rifornisce i venditori, al dettagliante, che vende al pubblico la merce. Negli ultimi anni si sono andate creando nuove forme di distribuzione, che hanno avuto una grossa presa sul pubblico. In particolare è da evidenziare il boom dei supermercati e dei grandi magazzini. Tali complessi distributivi, guardati in un primo momento con una certa diffidenza, incontrano oggi il favore di un vasto pubblico. I prodotti messi in commercio hanno infatti dimostrato non solo di avere prezzi accessibili, ma anche di essere di buona qualità.

Un altro importante settore è quello dei trasporti: treni, aerei, navi, autobus, mezzi interurbani di superficie e sotterranei. Quando il trasporto pubblico è ben organizzato, ne trae vantaggio tutta l'economia. Fa parte del settore terziario anche l'organizzazione dei servizi d'uso quotidiano nelle abitazioni, negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche: intendiamo parlare dell'illuminazione, del riscaldamento, del gas, così come delle poste, dei telefoni e via dicendo.

Non si può non accennare poi al grande settore dell'informazione: giornali, riviste, programmi televisivi e radiofonici, mezzi di comunicazione in genere.

Vi sono settori che negli ultimi anni hanno acquisito una importanza sempre maggiore, come i servizi per il tempo libero, per la cultura, per lo sport e altri ancora. Vanno ricordati infine anche la pubblica amministrazione, l'istruzione, gli enti locali e, in genere, le attività del pubblico impiego.

Il terziario quindi è un settore che, oltre ad essersi rapidamente evoluto dal punto di vista qualitativo, si è ampliato in modo vistoso dal punto di vista quantitativo. Se prima esso era un semplice supporto alle attività primarie e secondarie (anche in termini numerici, cioè anche considerando il numero dei lavoratori impiegati) ora esso assorbe, in percentuale, una quantità di addetti superiore a quella della stessa industria. E questa, a detta degli esperti, una linea di tendenza destinata a durare e a incrementarsi.

 

Vi è poi un settore particolare che sta emergendo rapidamente: è il cosiddetto terziario avanzato. Con questa espressione si suole indicare quell'insieme di attività legate all'informatica e ai computer. Esso comprende quindi sia le fasi di realizzazione degli elaboratori elettronici, sia l'elaborazione di programmi, sia la gestione, l'organizzazione e la diffusione delle informazioni.

In conclusione, si può dire che il settore terziari'o sia in pieno sviluppo, ben lungi dall'aver esaurito le proprie potenzialità. Anzi, sembra di poter affermare che esso costituirà sempre più il settore trainante dell'economia, come si può intuire osservando le società occidentali più evolute, a cominciare da quella statunitense, nella quale gli occupati nel terziario costituiscono oltre il 50% dei lavoratori.

 

La disoccupazione

La disoccupazione, nell'attuale sistema economico, costituisce uno dei problemi fondamentali.

Già in epoca pre-industriale*, vi erano stati periodi con alta percentuale di disoccupati, ma solo nell'età moderna il fenomeno diventa stabile e connaturato allo sviluppo stesso del sistema produttivo in quanto

i disoccupati costituiscono un serbatoio di manodopera, spesso a basso costo, utilizzabile dalle imprese.

In tal modo gli imprenditori, da un lato riescono ad arginare le rivendicazioni dei dipendenti, dall'altro possono attingere a una sorta di "esercito di riserva", imponendo determinate condizioni di lavoro.

Questa situazione, che rispecchia, quanto accadeva fino a qualche decennio fa, oggi è in parte mutata. Le lotte sindacali hanno consentito ai lavoratori di ottenere garanzie per quanto riguarda il posto di lavoro e le retribuzioni; ormai, infatti, i lavoratori corrono il rischio di essere licenziati quasi soltanto in caso di fallimento dell'azienda o di gravi mancanze disciplinari.

Inoltre, si è fatta strada negli organismi statali la consapevolezza che la disoccupazione non è un problema che riguardi solo il rapporto di forza lavoratori imprenditori; si tratta invece di una questione che chiama in causa l'equilibrio e l'assetto dell'intero sistema sociale. Lo Stato, quindi, ha iniziato a intervenire per ridurre il livello di disoccupazione. La situazione è perciò, almeno in parte, mutata in senso positivo.

Tuttavia la percentuale dei disoccupati è ancora alta e attualmente si aggira attorno al 17%, sia in Italia che nell'intero continente europeo. In altri termini, su dieci persone in età lavorativa, una è disoccupata. Queste percentuali salgono se rapportate al mondo giovanile: la disoccupazione giovanile, infatti, tocca anche punte del 40%.

Un aspetto di tale fenomeno, che si è particolarmente accentuato negli ultimi anni, è la cosiddetta disoccupazione intellettuale. Essa riguarda tutte quelle persone che hanno raggiunto un titolo di studio elevato (diploma o laurea) e che non riescono a trovare un'occupazione adeguata alla preparazione culturale conseguita.

Vi sono in questo caso fenomeni di disoccupazione vera e propria e di sottoccupazione, che consiste nell'esercizio di un mestiere molto al di sotto degli studi fatti.

In un'epoca siffatta non si può più pensare al posto di lavoro fisso, sicuro, immutabile fino al momento del pensionamento. È urgente cambiare mentalità, disponendoci anche a mutare tipo di lavoro, a vivere fasi di disoccupazione, nelle quali tuttavia il boom dell'informatica richiede un gran numero di addetti. In parte sono i giovani a sfruttare questa opportunità, in parte invece sarebbe bene che i dipendenti di aziende in crisi avessero il coraggio di utilizzare i nuovi spazi che il mercato del lavoro propone.

Una via di intervento pubblico consisterebbe nell'incentivare, attraverso finanziamenti, iniziative imprenditoriali private, soprattutto quelle provenienti dai settori giovanili. Questa strada sembra positiva, a patto che si finanzino iniziative aventi chiarezza di programmi e serietà di intenti. In questo senso si apre forse una strada favorevole per i giovani. Strada che però richiede una mentalità diversa da quella delle generazioni immediatamente precedenti: una mentalità non facile. Intendiamo parlare della capacita e del gusto di rischiare (naturalmente a ragion veduta), di mettere cioè in gioco le proprie doti e competenza per ritagliarsi creativamente uno spazio nel mercato del lavoro. A tale proposito, concludendo, va rivisto l'iter formativo che scuola e università oggi offrono; occorre, in sostanza, passare a un sistema però: elastico e però: permeabile alle esigenze dell'attuale mercato del lavoro. Un mercato, non dimentichiamolo, in rapida evoluzione.

 

*La storiografia applica il concetto di economia preindustriale all'epoca che va dal tardo Medioevo all'inizio dell'Ottocento in Europa: con questo riferimento il termine fu creato dagli storici europei nei primi anni Cinquanta del Novecento

 

Immigrazione e razzismo

Per tutto il ventesimo secolo, l’Italia è stata terra di grande mobilità sia esterna che interna. La mobilità esterna. cioè l'emigrazione verso altri paesi. fu particolarmente impetuosa nei primi armi del Novecento, quando milioni di emigranti, specie dalle regioni del sud Italia, ma anche dal Veneto, lasciarono la madre patria diretti verso l'Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, 1'Argentina in cerca di fortuna o almeno di un lavoro qualsiasi.

Dopo la fine della migrazione esterna si sviluppò, a partire dagli anni 50, e cioè in coincidenza con il boom industriale, un grande fenomeno di migrazione interna: milioni di italiani cominciarono a spostarsi dal sud agricolo e cronicamente povero, al nord, ricco e industrializzato; il mito di questi nuovi "emigranti interni" non era più la Statua della Libertà, come per i loro nonni, ma la Fiat, la grande industria automobilistica di Torino. Ma, a partire dall'ultimo decennio, la tendenza si è invertita: ora sono i popoli di molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo (Nord e Centro Africa, Corea, Filippine, Cina ecc.) ma anche dell'Est europeo (Polonia, Albania) che guardano all'Italia come un tempo gli Italiani guardavano all' America: come a una terra ricca dj promesse, di opportunità di lavoro e ricchezza.

L’immigrazione di cittadini stranieri è un fenomeno comune a tutti gli Stati membri della Unione Europea, ma li riguarda in diversa misura. Le presenze più cospicue si registrano in Francia, Germania e Inghilterra, ma da qualche tempo si vanno intensificano anche in Italia: nel 1993 gli stranieri residenti erano circa 500.000, oggi se ne contano almeno 3 milioni (pari al 3% della popolazione), provenienti in gran parte da nazioni non facenti parte dell'Unione Europea. In questa cifra non sono compresi i clandestini, cioè gli stranieri extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno e talvolta persino di un visto di ingresso. Il nostro Paese è stato per un secolo terra di emigranti, e ora questa inversione di tendenza ci trova alquanto impreparati, sia come mentalità e cultura sociale (molti Italiani, ad esempio, non sono disposti ad accettare la presenza di moschee musulmane nelle loro città), sia come apparato normativo.

Per quanto riguarda la normativa sull'immigrazione dei cittadini extracomunitari, negli ultimi dieci anni sono state approvate tre leggi diverse, e ad ogni nuova legge è corrisposto un aumento delle barriere e delle protezioni contro l'ingresso degli stranieri in Italia. L'ultima legge dei ministri di Centro-destra Bossi e Fini concede il permesso di soggiorno solo a chi è già in possesso di un contratto di lavoro, ma soprattutto stabilisce delle quote annuali di ingressi, da concordarsi con ogni Regione: per il 2003 erano previsti appena 19.500 ingressi. Anche la concessione di visti temporanei a fini turistici o di affari è diventata molto selettiva: per esempio, i cittadini bielorussi che volessero andare in vacanza in Italia devono dimostrare di avere già un lavoro (e preferibilmente una famiglia) in patria e di poter spendere in Italia 100 euro al giorno per le spese alberghiere; così, un giovane o una giovane senza lavoro e senza coniuge non avranno mai la possibilità di visitare l'Italia. Si prevede, inoltre, di schedare tutti gli extracomunitari residenti. identificandoli mediante le impronte digitali. La legge è anche molto severa nei confronti dei clandestini: gli irregolari, dopo un periodo di soggiorno obbligato in appositi centri, per la durata massima di 60 giorni, sono espulsi con accompagnamento alla frontiera; se rientrano dopo l'espulsione e vengono scoperti, finiscono direttamente in carcere.

In effetti, quello dei clandestini appare l'aspetto più grave del fenomeno immigrazione. Il loro numero non è facilmente stimabile e siccome non esistono dati ufficiali, è difficile "misurare" il grado di sfruttamento, l'inadeguatezza delle condizioni di vita e la violazione dei diritti che affliggono queste persone, nonché le possibilità di reclutamento che la malavita organizzata ha nei loro confronti. Proprio i frequenti contatti dei clandestini con gli ambienti della criminalità hanno determinato un drastico cambiamento nell'atteggiamento degli Italiani verso gli stranieri. L'Italia ha coltivato a lungo il mito della sua bonarietà, di una diffusa resistenza agli odi di sangue, alle esclusioni, alle persecuzioni, alle violenze gratuite; ma, ammesso che sia stato veramente così, oggi il nostro "Belpaese" si sta scoprendo razzista. Contrasti sociali veri e propri ancora non ci sono, ma si moltiplicano un po' ovunque atti che potremmo definire preventivi, come scritte sui muri e gesti teppistici. Si tratta di un razzismo inconfessato persino a se stessi e che ha alla base non il diverso colore della pelle, la differenza dei tratti somatici e l'estraneità degli usi culturali e religiosi, ma piuttosto la considerazione del prodotto interno lordo dei Paesi dai quali provengono gli immigrati. Un razzismo da benessere, dunque, che, come accade spesso ai parvenu, gli arricchiti improvvisamente e rapidamente, porta a disprezzare coloro che ancora restano poveri.

La stessa etichetta di "extracomunitari" affibbiata agli immigrati, per lo più "di colore", cioè neri, provenienti dal Sud del mondo, è un penoso eufemismo che tradisce disprezzo per chi, al di fuori della UE, non ha saputo (o potuto) conseguire lo stesso livello di cultura e di benessere. Infatti, nessuno si sognerebbe di definire "extracomunitario" un Canadese, uno Statunitense, un Giapponese, un Russo, ecc., anche se di fatto lo sono; "extracomunitari" sono i Magrebini, i neri d'Africa, i Filippini, i Pakistani, i Brasi1iani, ecc .. insomma, gli stranieri poveri.

Oltre all'odiosa boria dei neo-arricchiti, gli Italiani dimostrano anche una colpevole cortezza di memoria rispetto alloro passato recente: solo qualche decennio fa, a migliaia e milioni i nostri lavoratori - da ultimo meridionali, ma per l'addietro anche settentrionali - si sparpagliavano per i Paesi ricchi del Centro-Europa e dclle Americhe, e non erano molto diversi, quanto a mezzi materiali. dagli attua1i immigrati "extracomunitari", mentre, per quanto riguarda la cultura, erano certamente meno dotati. E non vale la giustificazione addotta da qualcuno che. Il mentre i nostri emigranti andavano "a lavorare", gli immigrati attuali "non vogliono lavorare" e preferiscono o spacciare droga o dedicarsi alla vendita al dettaglio di chincaglieria e merce contraffatta. La "giustificazione" non tiene conto dei tanti nostri connazionali - specie napoletani - che hanno fatto fortuna all’estero con attività simili, né del fatto che molti immigrati fanno quel che fanno perché non hanno alternative e dove trovano lavoro – peraltro nero e malpagato lavorano, e come. Questa è l'ennesima conferma della natura essenzialmente culturale, cioè riflessa e "artificiale" del razzismo.

 





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